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I privati nelle università di Kiwi-Land

Pubblicato il: 07/05/2012 20:41:12 -


Anni Ottanta: il neoliberismo si insinua nella formazione terziaria in Nuova Zelanda e porta livelli di preparazione più bassi, licenziamenti da un giorno all’altro per professori con pochi studenti, formazione umanistica e sociale in piena crisi, facoltà orientate al solo business... poi qualcosa è cambiato.
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In tutto l’Occidente negli anni Ottanta si faceva largo il mantra del New Public Management, dottrina che teorizzava la razionalizzazione nell’ambito dei servizi pubblici, e la loro trasformazione in enti maggiormente competitivi, vicini alle logiche di mercato, governati da criteri aziendalistici e fortemente gerarchici.

Tale tendenza prese per prima piede nelle culture anglosassoni, dove essa venne anche teorizzata, in particolare in Inghilterra e negli Stati Uniti. In questi Paesi però essa incontrò diverse resistenze, dovute a precedenti visioni e culture, maggiormente improntate all’egalitarismo.

Tuttavia, in questo contesto, esisteva un Paese lontano, di dimensioni relativamente ridotte e talvolta dimenticato dai più, che veniva chiamato la “Scandinavia del Pacifico”. La Nuova Zelanda, che a suo tempo prese il nome da una oggi importante regione dei Paesi Bassi; viveva il suo isolamento geopolitico in una sorta di era dorata, in cui il welfare e gli assetti di politica e politiche non subivano grandi scossoni. Una situazione caratterizzate da una versione esotica, ma abbastanza vicina all’originale, del bipartitismo perfetto inglese, faceva da cornice a un sistema che redistribuiva con una certa equità la ricchezza a una striminzita popolazione di poco meno di cinque milioni di persone, che non poteva lamentarsi del proprio tenore di vita.

Arrivò tuttavia il momento in cui Kiwi-Land (nome derivante dall’animale simbolo della Nuova Zelanda) cambiò di colpo. Menti più o meno illuminate, provenienti soprattutto dal bacino dei consiglieri della britannica Lady di Ferro, cominciarono a discutere tra loro su come sperimentare una serie di riforme di impronta marcatamente neoliberista in questo lontano mondo incantato, che si sarebbe dovuto trasformare in un piccolo prototipo della nuova Europa, sempre più vicina al Giappone e sempre meno alla Scandinavia. Il governo laburista neozelandese di allora accettò di importare una serie di importanti esperti di policy dall’Inghilterra perché lo illuminassero su come applicare la svolta neocapitalista che avrebbe posto il piccolo Paese all’avanguardia dei mercati globali, e gli avrebbe permesso di reggere una competizione che diventava sempre più aggressiva. Risultato: nell’arco di dieci anni, la privatizzazione di ogni settore della vita pubblica all’insegna del nuovo pensiero vincente.

Il processo avvenne con rapidità e radicalità impressionanti, senza pari nel mondo, fu portato avanti da un governo laburista e i sindacati si trovarono completamente spiazzati. Tutti i settori furono toccati dal grande cambiamento: quello sanitario, quello pensionistico, dei trasporti, dei servizi e, ciò che più interessa sottolineare in questa sede, quello dell’educazione e particolarmente dell’higher o tertiary education, come viene definita in Nuova Zelanda.

Il potere delle università venne trasferito di fatto dai docenti a un consiglio di amministrazione esterno, formato da esperti del settore ritenuti super partes e aventi a capo un manager, che di fatto decideva la politica da adottare nelle singole università guardando soprattutto alle esigenze di quello che ora era il nuovo obiettivo: i costi e il guadagno. Il settore veniva a tutti gli effetti assimilato a quello industriale, con ingenti fondi dedicati alla pubblicità e alla promozione degli atenei, con la chiusura dei corsi di studio con pochi studenti, e dunque pochi soldi, con le nuove direttive che spingevano i presidi di facoltà o chi era a capo degli atenei a incentivare nel maggior modo possibile la promozione dei ragazzi a pieni voti, per mantenere in vita il corso e spesso l’istituzione stessa. Già, perché i fondi, una volta elargiti dallo Stato con il processo di riforme di cui sopra, venivano erogati secondo le direttive del PBRF (Performance-based related fund), dunque si stabilivano degli indici secondo i quali si distribuivano i soldi alle università. Facoltà e università una volta prestigiose e stimate chiudevano per lasciare posto a innumerevoli istituti grandi e piccoli di economia, management, sapere “marketizzabile”. Le conseguenze sono immaginabili: livello di preparazione più basso, licenziamenti da un giorno all’altro di chi teneva corsi “unsuccessful”, formazione umanistica e sociale in piena crisi, facoltà che sfornavano menti orientate a un business fine a se stesso e funzionale a logiche alte e altre. In più carte false per vincere la competizione homo homini lupus in corso. E per gli studenti poveri? Non parliamone, fuori mercato.

Tutto ciò è servito? Chi lo sa, quello che è sicuro è che dopo anni di “nuovo corso”, la marcia indietro è stata addirittura necessaria, ed è stata ingranata da un governo conservatore che, forse, insieme ad altre menti artificialmente illuminate, ha dovuto rivalutare il tanto vituperato, old-fashioned, imbiancato, maledetto, indispensabile welfare.

Damiano De Rosa

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